Marketing olistico, etica e web. Sono questi alcuni degli argomenti affrontati da Gianluca Lisi, esperto di marketing, in questa intervista sul futuro della comunicazione.
“Il marketing dovrebbe occuparsi di indirizzare il desiderio, non di servirne passivamente i capricci.” Queste parole di Gianluca Lisi, esperto di comunicazione e docente di marketing, impongono a tutti una profonda riflessione sul modo di intendere il marketing e la comunicazione. Quel che Lisi delinea in questa intervista è una disciplina profondamente diversa rispetto al passato, che si interroga sul consumo come “esperienza valoriale” e che pone al centro della propria comunicazione valori come il rispetto dell’altro e della diversità, l’ecosostenibilità, il valore sociale delle imprese. Anche in campo cosmetico, il marketing e la comunicazione devono agire in questa nuova direzione e dar vita a prodotti che mettano al centro l’Uomo inteso come sistema di relazioni. E la sfida del marketing olistico di cui parla Gianluca Lisi in questa intervista è proprio questa: soddisfare i bisogni di soggetti dalla sensibilità amplificata e proporre una comunicazione onesta e sincera. Scenario privilegiato del marketing olistico è il web: qui i grandi marchi, ma soprattutto le piccole aziende, possono creare uno spazio di interazione con il cliente intelligente e costruttivo e dar voce anche a chi “il mondo non solo lo vive, ma lo costruisce ogni giorno”.
1-Qual è, secondo lei, in questo momento l’esigenza comunicativa prioritaria delle aziende cosmetiche?
A mio parere, occorre distinguere tra le grandi marche cosmetiche industriali e le piccole marche emergenti.
Per le grandi, la sfida è la stessa che devono affrontare le grandi marche industriali in ogni settore: diventare post-industriali.
Con questa espressione intendo indicare la necessità di transitare da un modello di offerta di valore basato su prodotti/marche/comunicazione centrati quasi esclusivamente sui vantaggi funzionali (o presunti tali) dei prodotti, sulla veicolazione di modelli di bellezza stereotipati e massificati, sulla sostanziale indifferenza verso l’impatto sociale e ambientale dell’industria (anche cosmetica: vedi il caso microbeads), per andare invece a proporre un’offerta di valore, tangibile e intangibile, che tenga conto maggiormente dell’unicità delle persone, del loro bisogno di autenticità, del rispetto degli animali, dell’ambiente, delle diverse tradizioni e retaggi culturali, del bisogno di naturalezza intrinseca dei prodotti, e del bisogno di veridicità nelle affermazioni pubblicitarie in campo cosmetico (non si può cercare di far credere alle persone che, ad esempio, facendo una semplice doccia con un certo prodotto si riesca a ridurre la cellulite).
Per le piccole marche emergenti, la sfida, come sempre, è crearsi uno spazio di mercato con piccoli budget. In questo senso, credo che il web possa essere uno strumento in più rispetto al passato.
2- Perché il web è da considerarsi il mezzo ideale per le piccole aziende per conquistarsi uno spazio nel mercato?Perché è alla “portata” anche di realtà con piccoli budget, oppure perché è molto più “friendly” di altri media? O ci sono altri motivi….
Senz’altro il web offre la possibilità anche a piccole aziende con piccoli budget, di diventare visibili al loro mercato di riferimento: questa è una prima ragione, di tipo economico, più facilmente osservabile.
Ma è vero anche che il canale digitale ha creato un nuovo ambiente, per sua natura conversazionale, dove a contare non è soltanto il budget. Infatti, se davvero “i mercati sono conversazioni” come affermato ormai quasi venti anni fa nel Cluetrain Manifesto, ad essere più efficaci in questo ambiente sono le logiche di relazione e non quelle dell’advertising, dove le aziende cercano attenzione tramite l’interruzione ed il monologo.
Le piccole aziende innovatrici, in questo ambiente, hanno il vantaggio di essere portatrici di argomenti intrinsecamente conversativi: è più facile innescare conversazioni relativamente all’innovazione invece che rispetto a prodotti ormai conosciuti da tutti.
La conversazione, a sua volta, crea quella “digital intimacy” che avvicina in modo potente i clienti alle marche: si tratta quindi anche di una qualità diversa della comunicazione che oggi è a disposizione delle piccole aziende innovatrici.
3- Quali sono i tratti distintivi della comunicazione 3.0?
L’espressione “marketing 3.0” ci rimanda necessariamente a Kotler e al suo libro dallo stesso titolo.
Della visione di Kotler condivido l’idea di fondo che stiamo assistendo ud un forte cambiamento, futuro, del marketing.
Sono d’accordo sulla sua identificazione di tre forze principali di cambiamento: la partecipazione, promossa dal web, il bisogno crescente di produzioni identitarie come conseguenza della globalizzazione e standardizzazione dell’offerta e l’affermazione crescente di una classe creativa più capace, rispetto all’offerta industriale, di soddisfare bisogni profondi emergenti delle persone.
Detto questo, aggiungerei che, secondo me, il marketing 3.0 è, o sarà, un marketing post-industriale.
Uscire dal paradigma industriale non significa, a mio avviso, superare certe impostazioni nella creazione e veicolazione dei prodotti: implica anche un cambiamento nelle motivazioni del business.
Le marche post-industriali proverranno, per essere credibili come tali, da aziende post-industriali: aziende che non metteranno al centro la massimizzazione del profitto, come nel paradigma industriale, ma riusciranno ad affermare la centralità di ciò che oggi definiamo CSR, corporate social responsability, ovvero i valori sociali.
Anche Wally Olins, un grande del branding, ha sostenuto l’idea che la CSR diventerà importante quanto il marketing.
Personalmente, ritengo che la CSR diventerà IL marketing. E anche la comunicazione.
Con l’espressione “produzione identitaria” intendo quel tipo di produzione non globalizzata, standardizzata, industrializzata, basata sulle grandissime scale di produzione che, oltre a creare prodotti della stessa azienda identici tra loro, tende a creare anche prodotti estremamente simili anche se provenienti da aziende diverse. In pratica, le grandi marche globali hanno creato un panorama dell’offerta estremamente omogeneo, per non dire piatto.
Questo fenomeno, per reazione, crea in molte fasce di clienti il bisogno di prodotti che abbiano una maggiore diversità in termini di provenienza, modalità produttiva, matrice culturale. In pratica, sembra che oggi le marche globali debbano appartenere ad una fonte produttiva se non occidentale almeno occidentalizzata, ispirata a valori quali il progresso tecnologico, la ricerca scientifica, l’efficienza. Ma un prodotto può avere valore anche per il fatto di rappresentare un certo modo, storicamente, geograficamente, culturalmente determinato.
4- In che modo la classe creativa può rispondere a questi nuovi bisogni?
La classe creativa, ed anche il fenomeno dei makers, riportando il fatto ideativo, progettuale e produttivo su di una scala individuale, o di piccolo gruppo umano, ha più facilità ad esprimere proposte realmente differenti tra loro, proprio perché esse attingono alle specificità individuali e sono meno condizionate dal fenomeno di omologazione molto presente nella grande industria, dove la creatività è spesso compressa da processi manageriali condivisi da molte persone e comuni a molte aziende. Le ricerche di marketing, il ricorso a tecnologie ormai a disposizione di tutti, tendono a costituire una sorta di grande galleria del vento nella quale tutti i prodotti, e non solo le auto, escono tutti simili per soddisfare la necessità di un coefficiente di penetrazione aerodinamico il più basso possibile. Sul letto di Procuste dell’industrializzazione si è persa l’originalità che solo l’individuo può esprimere.
5- Che cosa si intende per marketing olistico, concetto che lei riprende anche nel suo volume “Loveting!”?
Ho utilizzato questa denominazione in “Loveting!” per trasmettere l’idea che la definizione dell’identità delle persone sta cambiando, e anche velocemente. Invece di considerarci individui isolati, portatori di bisogni che si fermano al nostro io-pelle, stiamo sempre più includendo nella definizione di noi stessi anche gli altri, anche persone molto lontane da noi, chi produce i prodotti che acquistiamo, gli animali necessari al processo produttivo, le piante, l’ambiente, e anche le future generazioni. Il cerchio dell’empatia si sta progressivamente allargando, come ha brillantemente argomentato Jeremy Rifkin nel suo recente libro sull’argomento.
Marketing Olistico è quindi un marketing che intende soddisfare, appunto olisticamente, i bisogni di questo individuo dalla sensibilità amplificata.
Ma l’aspetto più importante è che il Marketing Olistico intende soddisfare anche i bisogni di eticità, coerenza, senso dei marketer stessi: i bisogni di chi fa marketing sono infatti, secondo me, il vero punto cieco, non analizzato, totalmente trascurato e in ombra, del marketing attuale.
6- In che modo il MKT risponde a questa sensibilità allargata? E come possono i prodotti cosmetici rispondere a questi nuovi bisogni?
Il marketing, per rispondere efficacemente alle richieste poste da un bacino di bisogni riferibili a nuovi stakeholeder sempre più ampio, deve sviluppare prodotti sempre più rispettosi dei diritti di chi produce, di chi consuma, di chi si ritrova il prodotto smaltito nel proprio ambiente.
L’esempio delle microbeads: queste microsfere in plastica inserite nei prodotti esfolianti, dopo che sono state immesse nel mercato in numero di miliardi, si è scoperto che erano praticamente indistruttibili e che dal lavandino del consumatore finivano integre nei fiumi, e poi nei pesci. Potremmo dire, con una battuta, che le microsfere te le ritrovavi nel piatto.
Quindi, il marketing deve diventare olistico nel senso che deve tenere conto non soltanto della soddisfazione dell’utilizzatore al momento dell’uso, ma anche di tutte le conseguenze che il prodotto ha sul mondo.
Inoltre, il marketing, oltre a preoccuparsi dell’innovazione del suo output, cioè i prodotti che crea, deve anche cambiare in quanto processo: per riuscire a tenere conto di tutti questi aspetti e conseguenze, la cosa migliore che può fare è cercare di integrare sempre di più i consumatori, e anche i vari soggetti sociali che hanno particolare sensibilità ai temi legati alla produzione, nel processo di ideazione e sviluppo dei prodotti. Occorre andare verso una progettazione partecipata, come già successo ad esempio in urbanistica, dove si è capito da tempo che non puoi progettare un nuovo quartiere senza fare partecipare alla progettazione anche chi ci deve andare a vivere.
Diciamo che anche il marketing impatta fortemente sul mondo e sarebbe quindi una buona cosa fare partecipare al processo di marketing anche chi, nel mondo, ci deve vivere.
7- Concludendo questo percorso alla scoperta di un modo di comunicare nuovo, più vicino al consumatore finale e all’ambiente che lo circonda, secondo lei, quali aspetti dovrebbe affrontare un corso di comunicazione rivolto a professionisti della cosmetica?
Credo che dovrebbe puntare a formare professionisti in grado di proporre una nuova idea di cosmetica centrata sui bisogni del consumatore olistico, cioè la sua autenticità, la sua sensibilità verso i temi della naturalezza, del rispetto dell’ambiente e dei diritti degli animali, del prendersi a cuore sia ciò che succede prima che dopo l’utilizzo del prodotto, ovvero la produzione e lo smaltimento.
Professionisti in grado di aiutare le persone a scegliere i prodotti migliori da questo nuovo punto di vista e non semplicemente abili venditori e comunicatori di marche cosmetiche industriali a prescindere dal reale valore dei prodotti.
In pratica, chiamerei a raccolta tutti coloro che credono nella necessità di aiutare il progresso della cosmetica in senso post-industriale, un’evoluzione che avverrà sicuramente e che sta già succedendo.
Magari ci vorrà tempo: era il 1976 quando Anita Roddick fondò The Body Shop e ci sono voluti 38 anni perché la scelta di non utilizzare ingredienti cosmetici testati su animali diventasse direttiva europea e legge dello stato italiano. Però è successo.
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